Una voce venuta da un altro tempo

Una voce venuta da un altro tempo

Presentazione a cura di A. Deplano
2004, Edizioni Frorias


La prima volta che incontrai Pietro Nanu ci trovavamo in casa di un amico comune che me lo presentò. Cantammo insieme, bevemmo e mangiammo seduti allo stesso tavolo con altre persone festanti. Quella sera non riuscii a conoscerlo: mi sembrò schivo e di poche parole. Lo ritrovai numerose altre volte, a Dorgali e altrove, in circostanze simili.

Forse a causa del clima di amicizia di quelle serate la parola riesce a disperdersi e il contatto fisico ravvicinato esprime un linguaggio rituale che non dice del carattere degli uomini.

Una sera, lontano da un palco sul quale aveva appena cantato, provai a porgli delle domande sulle origini del Tenore, sul significato che egli attribuiva a quel modo di cantare, su come avesse appreso le melodie del repertorio e su chi fossero i suoi maestri. Ricordo ancora l’imbarazzo che provai davanti alla spontaneità con cui egli rispondeva, in estrema sintesi, a quelle domande. “L’amus semper connotu. Unu cantat ca nde tenet gana. Lu fachìan sos mannos nostros e nois lu fachimos che a issos”. Non c’era dunque mistero nel canto polivocale sardo: era naturale per Preteddu. Faceva parte del suo corredo genetico. Perché meravigliarsi?

Non possedeva la stortura della concettualizzazione. Aveva ereditato un dono naturale di inestimabile pregio e ne faceva il solo uso che questo dono richiedeva: Pietro Nanu cantava.

Autentica e genuina espressione della tradizione del canto popolare, nel cantare Preteddu dava voce al sentimento che pulsa dal profondo in maniera irrefrenabile.

Sfugge alle classificazioni: Pietro Nanu ha voce lucidamente chiara, come si può udire ancora oggi. La sua abilità canora non si lascia imbrigliare nei rigidi canoni di standard né di schematizzazioni di sorta: egli è la Voce del canto a tenore e se per altri si trovano aggettivi caratterizzanti, il sostantivo riassume le sue qualità.

Preteddu non canta più solo per sé e per gli amici che gli stanno intorno, né per la sopraelevazione di palchi da festa paesana di fronte a un uditorio che lo ama e lo riconosce: Pietro Nanu è fra le prime voci del canto popolare a conoscere le forzature della sala d’incisione. La confezione del prodotto discografico da commercializzare gli impone l’assunzione di una grammatica. E’ come chiedere a Mowgli di frequentare la scuola.

Il testo è, per lui, un veicolo che permette l’inizio del canto ma quando il verso esaurisce la sua forza propulsiva nel limitato conto delle sillabe componenti continua l’incontenibile impeto e comincia la creazione musicale del solista. Non esiste paradigma, solo genialità pura traduce in sonorità il desiderio di continuare a costruire ritmo legando insieme, in modo indissolubile, canto del tenore e canto monodico. La voce si fa strumento. La testualità poetica passa in secondo piano e via via si dissolve. Il verso viene spezzato. I frammenti ripetuti. Le piccole parti rivivono con nuova pronuncia. Le consonanti perdono coerenza: i suoni sonori diventano sordi e quelli che in una precedente stesura erano sordi si leniscono per compensazione. Si dilata il testo con l’inserimento di piccole parti di discorso che non disturbano la logica dei concetti, nel canto. Come poteva tutto questo essere naturale?

Ascoltare la viva voce di Pietro Nanu sotto un palco, sentirla da un apparecchio radiofonico, da un mangianastri o dal televisore proietta in un mondo che stenta a sopravvivere. Fra gli ascoltatori di oggi manca la consapevolezza delle forme del canto spontaneo. Come comprimere la durata del canto per il ballo in piazza? Oggi tutto diventa progetto determinato da logiche di mercato che impongono contenuti e stili. Preteddu assunse una linea di coerenza: i testi che egli cantava rispecchiano il gusto poetico del popolo al quale egli apparteneva. Le ottave dei poeti improvvisatori intonate da Preteddu risvegliano i ricordi e rinnovano le emozioni della festa. Le metafore espresse nei balli accomunano ballerini e astanti. I toni sdolcinati, i piccoli quadri dalle tinte di Arcadia che diventano fosche promesse di odio e vendetta nel “romanzo popolare” di Giorgio Pinna sono segni di una psicologia diffusa fra il popolo sardo degli anni sessanta e settanta. Preteddu è il migliore interprete di quel popolo e le persone conservano il suo ricordo come il più bel gioco d’infanzia, un momento di grande affetto, un sapore antico da riassaporare.

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