Domu de jana

foto di repertorio (credit commons -wikimedia)
 

La torre nuragica era eretta da un clan che pascolava il proprio bestiame e praticava quella rudimentale agricoltura di sussistenza esercitando pieno e rispettoso possesso sulla terra. Erano note e praticate forme di rotazione (paberìle e bidattone) delle colture giunte fino a noi e, quando si riteneva che il terreno dovesse rigenerarsi, si abbandonava l’insediamento per cercare un altro luogo propizio per innalzare un nuovo tempio al dio della luce e del calore intorno al quale continuare a vivere.

Nel corso dei millenni precedenti la popolazione sarda del Neolitico ha dato vita ad una società egualitaria.

Uomini e donne gestivano differenti sfere di azione realizzando una uguaglianza complementare.

Non sono note forme di gerarchia o élites, né si ha memoria di grandi personaggi rimasti nella mitologia.

Alla produzione basata sull’agricoltura e l’allevamento rimase sempre affiancata un’attività di caccia e pesca occasionale integrata dalla raccolta dei frutti disponibili in natura.

Non si rilevano tracce di  guerre né installazioni difensive e, tuttavia, fin dal VI millennio a.C. inizia l’estrazione dell’ossidiana per ricavarne delle armi oltre che degli utensili e, ad allora risale la prima ceramica nell’isola.

Tutta la popolazione beneficiava in modo equo di questa economia.

Oltre agli edifici comunitari destinati alle assemblee del consiglio e agli incontri religiosi, le abitazioni dell’epoca erano uniformi.

La popolazione isolana di quei tempi sembra essere organizzata in gruppi clanici o gruppi di parentela sviluppati lungo la linea materna (matrilinearità), legata alla matriarcalità.

Solo così si spiegano le intraprese di colossali lavori di realizzazioni megalitiche che comportano una coesione identitaria prima e religiosa poi, su tutto il territorio regionale.

Le domus de jana nascono forse come edifici comuni di carattere sacro: utilizzate dapprima come depositi comuni delle granaglie. Erano scavate ai margini dell’insediamento umano, clanico.

La sala interna era spesso decorata con simboli religiosi.

Le aperture di questi monumenti, assai sovente sollevate dal terreno, sono esposte a Est e a Sud-Est, forse per servire da osservatori dei fenomeni astronomici per poter regolare la semina e la raccolta.

La donna contava e controllava la disponibilità alimentare e custodiva il deposito delle derrate.

Allevava il proprio figlio cantandogli s’anninnìa e costruiva nel bambino le sonorità del linguaggio e gli ideali di vita da perseguire.

Fin da quando il bambino iniziava a puntare i piedini sul grembo della madre, della nonna o di altro componente del clan, gli si intonava il ritmo del ballo per aiutarlo a rafforzare le strutture del corpicino e assumere ritmo. I rimproveri, benevoli o esagitati, conferivano al piccolo l’idea del pericolo da evitare e del lecito da fare. La cultura clanica si solidifica e trasmette nel canto.

La struttura del linguaggio, bene o male, passava dalla madre al figlio.

Sa pesàntzia (l’educazione) delle nuove generazioni viveva nell’espressione valoriale del rapporto tra fedàles (i coetanei). La scoperta del mondo avveniva in misura identica fra fémina e mascru, senza tabù.

In epoca nuragica l’equilibrio fra i sessi subì uno spostamento a scapito della donna che diventò sempre più dipendente dal cibo procurato dall’uomo pastore raccoglitore guerriero.

Sa jana (la donna) viveva in mezzo al clan e, a lei era destinata una costruzione sacra, fin da prima dell’epoca nuragica: la domu de jana.

Come il nuraghe, anche la domu de jana ebbe diverse fasi di sviluppo architettonico nei secoli, e perciò diverse ‘destinazioni d’uso’. La domu de jana conobbe nel tempo differenti funzioni, fino a quella funeraria riscontrata nelle domus di Paschèdda e Luchiddài (Dorgali).

Forse l’idea che il defunto fosse deposto in spazio ristretto e costretto alla posizione fetale postula che gli antichi Sardi credessero nella rinascita post mortem?

Il frequente ricorso al colore ocra nei dipinti interni alle domus de jana attesterebbe questa convinzione. È la medesima colorazione che si ritrova nelle sepolture di esseri umani di Neanderthal e questo significa che le sepolture del megalitismo sardo sono assai antiche ma, soprattutto, che i Sardi (anche in epoche più vicine a noi) condivisero sistemi di sepoltura risalenti a epoche assai remote.

Il colore ocra ripropone il colore rosso del sangue simbolo della vita che scorre. Nel Paleolitico superiore tutto il continente europeo faceva uso dell’ocra nelle sepolture.

Nella società matriarcale e matrilineare dei millenni del megalitismo la donna esercitava la conoscenza e la trasmissione delle scienze naturali. Nell’era Paleolitica e in quella Neolitica, le sacerdotesse erano delle sciamane e fungevano da intermediarie tra le forze divine ed il popolo, come guaritrici della comunità e custodi delle tradizioni della tribù.

Giunta alla maturità sessuale la donna fertile (jana) entrava in possesso dei segreti dell’erboristeria e della medicina di allora.

La domu era il luogo sacro zaʾānu [Art] décoré, orné, paré / decorato, ornato, addobbato’, come si rileva ancora dalle pròtomi taurine raffigurate all’interno del monumento scavato nella roccia: pròtomi facilmente assimilabili alla raffigurazione della sacca uterina anziché alla testa del bovino.

La raffigurazione della testa bovina con le corna rivolte verso l’alto (cfr le pitture rupestri di Altamira o di Lascaux) non è solo la rappresentazione dell’animale più imponente nella fauna europea: la sua testa cornuta richiama la figura della Luna.

Nelle lingue della Mesopotamia luna, mese e mucca si identificano con la stessa parola warḫu  ‘lune, vache, mois / luna, vacca, mese’. La parola continua nel sardo farche ‘falce’ come anche in bartza, espressione esclamativa per dire ‘fortunato, che godi dei favori degli astri’.

La domu era, in assoluto, il luogo frequentato dalla donna ḫannāmu ‘être fertile, prospérer, se développer, se multiplier / essere fertile, prosperare, svilupparsi, moltiplicarsi’. Il riferimento è alla donna che può procreare: vd la zan dell’Iran e del Kurdistan dei nostri giorni.

Entrambi i termini proposti da base etimologica accadica producono lo stesso esito fonetico nella nostra lingua: zaʾānu > zānu > zan(a) che in sardo produce il suono iniziale [dz]>[û]>[(d)ʒ] reso con i segni j o x, a seconda della varietà linguistica, e ḫannāmu > zannāmu >zānna(mu) > zan(a).

 

Foto di repertorio (credit commons -wikimedia)

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