Pesàda

 

 

 

 

 

 

 

pesàda [pε’šaᵭa] s.f. Poes. Nella produzione di modellos (cfr Rimas) il termine pesàda è spesso utilizzato per indicare la strofa iniziale dove è esposto il contenuto peculiare di un componimento. Quel contenuto verrà poi ripreso con sviluppo di rime e versi di nuovo contenuto, con retrogradazioni e proliferazioni testuali fino a rasentare il non-sense.

Nelle composizioni poetiche il termine pesàda non ha altra accezione se non ‘strofa iniziale’, intesa come deposito di contenuti e forme da sviluppare: diventa allora sinonimo di Istérrida, di Argumentu, di Tema.

Mus. Il canto a tenore, ma anche la chitarra logudorese, utilizza la terminologia della composizione poetica e la pesàda (cantu de pesàda o cantu a pesàda) segnava l’inizio della cantàta. Da questo trarrebbe origine l’esortazione al solista di pesare una boche per chiedere di intonare o levare il canto.

Fra le testimonianze di canto a chitarra logudorese si ha un solo esempio in un rilevamento etnomusicologico del 1956, a Dorgali, ascoltabile nel sito delle Teche RAI all’indirizzo https://www.teche.rai.it/2014/11/archivio-del-folklore-musicale-italiano-sardegna/. Il brano è il numero 97) della provincia di Nuoro ed ha per titolo Canto in Re (solo sa Pesàda).

Nella polivocalità profana il termine pesàda è sempre meno conosciuto oggi, anche da interpreti rodati. Nella produzione canora odierna si tende a rendere meno elaborato il canto rispetto a qualche decennio addietro. Il semi-professionismo, fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso, richiede allestimento di programma e confezione della serata di canti. Sul palco, davanti al pubblico, i cantori eseguono direttamente il Cantu in RE e proseguono i canti con un ordine predefinito del repertorio.

La formazione ‘a tenore’ comincia con il canto a Boch’e notte o Boche seria e, a seguire, con le altre forme espressive predeterminate.

Manca quella fase di ‘riscaldamento’ delle voci che, nella béttola o nel magasinu, portava a costruire la tèmpera con cui affrontare e risolvere le difficoltà dell’atto canoro.

Nel canto polivocale preconfezionato vengono a mancare le istérridas o cantu a boche longa, che precedeva la Boch’e notte. In quest’ultima forma non si sentono più le trasposizioni ascendenti (due) e discendenti (due) culminanti con la ‘pedìda de su puntu / richiesta di rimodulare l’altezza della nota’. In quel frangente, rarissime voci soliste erano in grado di produrre 3 trasposizioni ascendenti per mettere a prova l’abilità delle due voci gravi de su tenore (bassu e contra): la terza artziàda era detta ‘cuìnta’.

Oggi il solista ricerca un’altezza media di canto e la mantiene per tutta la durata dello svolgimento del testo di un poema.

Un tempo, questo fenomeno caratterizzava esclusivamente i comuni di Mamojada, Orgosolo, Oliena, Ovodda…: comuni in cui non è possibile fare a meno della presenza canora della parte vocale della mesu-voche per ‘intundare su cantu / per chiudere il canto’, problema che non si pone nell’espressione canora dei comuni di Zona interna. D’altronde, nel cantu a istérridas, particolarmente se costruito su poema in terza rima, su puntu non cambia: l’intonazione rimane sempre fissa sulla medesima altezza.

Dopo le istérridas il solista passa, oggi, direttamente all’articolazione di accentazioni sillabiche sulle parole del testo poetico per agevolare la creazione musicale del coro. Si perdono così forme esecutive che costruivano la pesàda o che ne erano conseguenza, come sa boche longa ziràda, sa boche a corfos, che poi confluivano in sa boch’e notte, in sa boche a manzanìle o impuddìle, in su tertzu.

Come nei modellos, la pesàda del canto a tenore inizia(va) con toni lenti (boche longa o istérria) e procede(va) con incedere non movimentato, mai brioso, su un’altezza intonativa media.

È il canto in cui si scaldano le voci delle tre parti del coro.

La voce solista si sofferma su istérridas di versi intonati per esteso anche di lunghezze varie. La parabola intonativa è determinata dalla quantità di sillabe intonate dalla voce solista: 18 (7+11), 24 (11+11), 33 (11 x 3), 44 (11 x 4). Questa dovrebbe terminare con sa lassàda del testo poetico, capace di offrire il naturale avvicendamento con su tenore sulle parole della poesia esposte dal solista. Quel tratto finale conteneva un marchio identitario: sa lassàda caratterizzava il canto di ogni comune.

Oggi, càpita che il solista di Biddafraigàda termini il canto senza alcuna connotazione paesana e a quella lassàda possa subentrare un trio di qualunque altro comune. C’è di peggio: all’ultima sillaba del verso, spesso per inesperienza, il pesadore fa seguire un aaahh con cui segnala al coro che può iniziare a creare le proprie desinenze sonoro-musicali. L’abilità de su pesadore, per contro, risiede nella capacità di lavorare sulle quantità e qualità delle sonorità del testo poetico fino a trovare il momento opportuno per farsi da parte e favorire l’ingresso delle tre voci del coro.

Dalle istérridas a boche longa si passerà allora a “girare” (trasporre) il canto articolando le accentazioni sillabiche in modo da stimolare la creazione musicale de su tenore. È la fase de sa ziràda (trasposizione) o boche longa ziràda.

Un amico solista nato nel secondo lustro degli anni Trenta, nel descrivermi la difficoltà di esecuzione nella pesàda, usava dirmi che est cando sa boche ti che zirat su puntu in àeras / è quando il solista ti traspone il canto ‘in volo’: difficile per il solista che porge la nota quanto per le tre parti vocali che devono cogliere e ‘lavorare’ quella nota.

Siamo appieno nell’accezione etimologica del verbo pesàre, “levare, rivoltare, rigirare”, che ha origine nell’accadico pīsu(m) ‘pala’.

La lavorazione del pane carasau ha una fase importantissima in su pesónzu: a partire da questo assunto, era diffusa la convinzione che l’area di diffusione storica del canto a tenore fosse quella in cui “si fa il pane carasau”. Delle palle di pasta vengono schiacciate con le dita unite delle mani per ridurne il volume, lavorate con su tùtturu (mattarello), spianate su recto e verso, rivoltate più volte per poterle dilatare fino a far assumere loro la forma di quello che diventerà pane carasau. Una volta lievitate, quelle sfoglie di pasta vengono infornate e cotte con l’ausilio della pala che solleva i lembi della sfoglia perché gonfi, al calore, in maniera omogenea durante la cottura in forno. Successivamente, quel pane viene diviso in due sfoglie e queste sono reinfornate per diventare  carasau.

Parimenti, il canto della pesàda si pone come forma melodica di passaggio verso un’altra forma di sviluppo.

Non è più boche longa e non è ancora boch‘e notte. Contiene le strutture della prima e alcuni aspetti caratterizzanti della seconda.

Si tratta della fase della trasposizione che inizia con la lassàda a boche longa da parte del solista a cui risponde il coro con pochi corfos ma, ancor prima che bassu, contra e mesu-voche raggiungano l’acme della parabola della loro creazione nel primo segmento, su pesadore riprende le parole dei versi appena cantati e le intona nuovamente con sicuro investimento sull’accentazione sillabica delle parole del testo per determinare l’intervento delle tre parti vocali che battono con le proprie gole nella boche a corfos (boghe bàttia, picchiàdas…).

L’esecuzione dei corfos a partire dalla boche longa dilata i tempi di produzione musicale delle voci faringalizzate: queste sono spesso provate, nell’amministrazione della respirazione da questo canto ibrido.

Lo stesso pesadore deve conoscere a menadito il testo poetico per poterlo articolare nelle due forme diverse.

Il grado di difficoltà esecutiva è tale che, nelle serate sul palco come nelle registrazioni su disco è pressoché impossibile trovarne esempi. L’industria discografica propone un unico caso di pesàda: nel 1967 un quartetto di Dorgali incise un 45 giri (presso la IPM di Milano) il cui titolo della facciata A è Pesàda mentre la facciata B contiene i Muttos. Quella Pesàda non era tale: proponeva solamente un sonetto (di Gavino Dettori) che venne eseguito a boche istérria per intero e ripreso dal primo all’ultimo verso a corfos.

Unica, e insuperabile, rimane la proposta fatta in una favolosa audiocassetta dal Folk studio di Orune nella prima metà degli anni Settanta per la casa discografica Il Nuraghe di Mario Cervo di Olbia, si rinvia alla sola boche longa ziràda.

Orune non usa il termine pesàda nel canto a più voci della tradizione popolare ma, nella mk richiamata sono esposte tutte le parti componenti sa pesàda e nominate una ad una.

Superata la fase de sa pesàda si può intonare su tertzu (letter. il ‘girato’) o procedere con sos corfos della boch’e notte: l’approccio melodico perfetto.

Bibliografia:

– A. Deplano, Tenores.

– A. Deplano, Rimas.

– A. Deplano, Bidùstos.

https://www.assyrianlanguages.org/akkadian/index_fr.php .

Discografia:

Il gruppo Folk studio di Orune si proponeva con una elaborazione didattica delle forme canore del proprio paese: l’idea era confortata soprattutto dalla scelta di un unico testo poetico (la Moda a Santu Lenardu di Remundu Piras) su cui articolare diverse forme esecutive. Tuttavia Orune conserva forme di pesàda che chiama o ingloba direttamente nella boch’e notte. Esistono diverse produzioni discografiche in cui verificare la boche longa ziràda di differenti formazioni canore di Orune.

© Andrea Deplano 2024

 

mk Cànticos de Orune

Il Nuraghe, Olbia

 

Tenore Folk studio

Boche  Pascale Piredda

Bassu  Francesco Sanna

Contra Vittorio Montesu

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