Su Tenore

Su tenore: scrigno di senso dell’antropologia culturale sarda
Articolo in monografia InSardinia
pagine 39-44

2014, GBEditoriA


L’effimero identitario

Quattro individui segnano un cerchio introverso. All’interno sta l’immaterialità della cultura antropologica che li esprime. L’effimero canto di quegli uomini sprigiona una imponderabile forza comunicativa. Incuriosisce il suo ideale sonoro. Affascina il suo rumore antico come la pietra. Attrae la sapiente combinazione armonica dei timbri.

Modernamente preistorico, l’intreccio vocale di quelle emissioni assomma caratteri di arcaicità su concezioni stilistiche attuali. Stride la fissità dei corpi pietrificati e dei visi trasfigurati contro la variegata ricchezza di estro e fantasia esecutiva degli interpreti.

E’ la misteriosa messa in scena sonora dei codici ambientali. Suona come una rappresentazione etnologica. L’ascolto richiede fantasia interpretativa, presume percezioni acustiche che dispongano al viaggio con l’immaginazione. Non si procede a ritroso: il mito etnologico non si definisce in precise epoche storiche. Risiede nel ventre buio del veloce abbattimento temporale tipico della creazione onirica. Confina con il grottesco che si manifesta nelle figure-apparizioni della ritualità calendarizzata del sincretismo religioso.

Il canto a tenore è una maschera.

Ha parvenze animali nei registri della contra e del basso. La fonazione non è umana né appartiene all’animale. Si propone come improbabile sintesi fra i due. Mamuthones e Issohadores. Merdùles e Boes. E’ imitazione, jeu. Il duo gutturale si definisce “giogo” e rinvia al mito dell’imbovatura. Significa radicamento al lavoro della terra e interpreta la vitale produttività dell’uomo. La mesu-boche interviene a completare l’impasto vocale e chiudere il cerchio musicale. E’ il personaggio fantastico che svolge l’intreccio. Impersona il soffio del vento nelle notti di buriàna animate dalle figure mitologiche de s’Erchi e del Boe muliàche. Si fa respiro del mondo. Orna e infiora. Simboleggia la vitalità di una musica senza spartito. Appare e scompare. Affiora e s’ingola come fenomeno carsico. Guida e abbandona. Arricchisce con la presenza e impreziosisce con il silenzio.

L’aggettivazione classificatoria del canto rappresenta un mondo di affollata partecipazione. Si esce dalla sintesi del luogo comune del “canto dei pastori”. Il pecoraro e l’artigiano, il vaccaro e il capraro, il porcaro e su massaju (il contadino), accomunati dalla identica struttura culturale antropologica sono presenti in eguale misura nella terminologia del canto diffuso in un territorio compreso fra le Baronie e il Montiferru, la Barbagia e il Logudoro. Boche de torrare boes, boche de campanna, procalzìna, massaggina, maestralina, istudiantina, pastorella: in un’economia di sussistenza i mestieri erano arti e saperi condivisi e diffusi.

Levare la voce è innalzare canto al divino. Il corrispettivo sardo di quell’azione implica una molteplicità di significati. Pesare è verbo comune all’ allevatore come al cantore ma sostanzia l’idea di procreazione: attraverso la sua realizzazione si moltiplica il numero dei capi di bestiame, ma si determina anche l’accrescimento della stirpe familiare umana. Designa prosperità e discendenza. Descrive percorsi di crescita, di educazione, di istruzione, di sviluppo. Il canto si fa modello pedagogico. Insegna il rispetto per l’espressione dell’altro. Poggia sulla collaborazione che fonda l’alchimia dei suoni.

Il verbo tumbare accosta il canto alla stretta parentela con le launeddas, lo strumento tricalamo in cui la canna più lunga (tumbu) produce il suono di bordòne, ma il radicale sonoro tumb contempla suono e canto nel tenore per la creazione del ballo.

Come uno scrigno di senso il vocabolario del canto ingloba anche il pane carasau nella denominazione della melodia oniferese de sa tracheddàda.

Il resto è limba.

Suono. Sillaba. Parola. Verso. Strofa. Poesia. Misura ed estetica. Significante significazione. Investimento di senso e sonorità. Oggetto di divago e strumento di comunicazione. Apparato didattico, creatore di balli, divulgatore di messaggi con cui informare e istruire.

Il canto a tenore si fa storia umana. Attraverso la memoria collettiva una comunità ascolta, giudica, ricorda. Riconosce su bonu (il bravo) dal metzànu (cattivo) interprete. All’orecchio competente della comunità non sfugge s’iscussèrtu. La collettività supera anche lo sfavore de sa muta (la dea ispiratrice) e confida nel migliore stile personale dei cantadores.

Il canto a tenore è formidabile contenitore delle valenze della cultura della Sardegna e da sempre incanta isolani e non sardi.

La sua presenza è legata alla comparsa dell’uomo nell’isola. Quando questi si ritrovò ad organizzarsi in gruppo elevò canti al dio sole (Ra) e alla luna.

Come gran parte dei codici dell’identità culturale isolana il tenore passa a fianco delle vicissitudini storiche ed economiche dell’isola. Era presente fra le popolazioni delle montagne del centro a resistere contro l’invasione romana dal 238 a. C.? Cantavano a tenore i 300 militi sardi componenti la guardia imperiale nella reggia di Bisanzio sul finire del VI secolo alla presenza di Gregorio Magno? La sua presenza musicale, linguistica, lessicale e soprattutto semantica implicò l’azione di centinaia di monaci bizantini che per secoli lottarono per sostituire la religione prenuragica con il cristianesimo? Il canto a tenore sopravvive discreto nei secoli fino alle prime testimonianze scritte che dicono di un “modo grossolano e monotòno di cantare” diffuso fra la popolazione anche a Sassari (1563). Vive nel canto dei Gosos non più usati per produrre letteratura agiografica ma per cantare su quel sistema strofico aspetti del quotidiano.

I viaggiatori stranieri ne produrranno testimonianza nelle pagine dei loro libri fin dal 1773. Si esprimeranno con toni lusinghieri nei suoi confronti sostenendo: “Chi vuole imparare a conoscere la musica nella sua culla, bisogna che venga presso i sardi!” (J. Fuos). Il canto a tenore entrerà nelle speculazioni di studio di quanti (M. Madao, Le armonie de’ Sardi) si applicheranno alla conoscenza dei meccanismi di composizione poetica sarda. La compilazione del Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli stati di S. M. il Re di Sardegna  di G. Casalis da parte di V. Angius darà una insuperata definizione dei limiti di diffusione territoriale del canto a tenore nel corso della prima metà dell’ottocento.

Nel 1929 la prima opera discografica consente la riproduzione da disco in bachelite dei suoni caratteristici: quattro cantori di Dorgali incidono 5 dischi 78 giri presso la Edison Bell di Milano. Nel 1957, Alan Lomax inserisce due brani in dischi di vinile commercializzati in tutto il mondo: sono brani tratti da rilevamenti etnomusicologici del Centro Nazionale per gli Studi sulla Musica Popolare sito nell’Accademia di Santa Cecilia. Quei rilevamenti fermano le espressioni canore di numerosi comuni dal 1948 agli anni settanta. Fin dal 1964, case discografiche isolane (Il Nuraghe di Olbia) iniziano la produzione di 45 giri suonati nei juke-box dei bar. Con Peppino Marotto (1969) il canto è strumento per la lotta di classe e veicola testi poetici di engagement politico e sindacale.

La seconda metà degli anni settanta rivaluta i testi di ogni natura e il tenore, nelle sue declinazioni di cuncordu, cussertu, cuntrattu esprime poemi di poeti colti (Diego Mele, Melchiorre Murenu, Paolo Mossa, Peppino Mereu, Antonio Cubeddu Raimondo Piras…) come di poeti locali. Trasmissioni televisive investono nella presenza musicale delle formazioni di cantori. Vedono la luce le prime pubblicazioni multidisciplinari e, a partire dal 1990, musicisti e musicologi vi rivolgono interesse di studio: il tenore è ospite d’onore a Darmstadt. Frank Zappa, Peter Gabriel e tanti altri artisti di fama internazionale come tanti cantanti e musicisti italiani provano momenti di laboratorio e contaminazione fra la loro musica e i suoni de su tenore.

Nel 2006 l’Unesco lo inserisce nel patrimonio dei beni immateriali intangibili dell’umanità. Giovani e anziani continuano a cantare nei chioschi di bibite allestiti nelle sagre paesane, nelle strade dei paesi, nelle cantine private e nel corso delle feste campestri. Ogni occasione di festa –matrimoni, tosature, banchetti fra amici- è palestra per l’esercizio canoro.

È pratica popolare che vive la contemporaneità negli inserti di youtube o di suonerie di cellulari, di performances di formazioni semi-professionali e di cantàte fra cantori improvvisati intorno ad un bicchiere fra amici. È sussulto spinto da gioia e passione.

 

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