Su chittu tra pessu e poesia

Su chittu

 

 

 

 

 

Capitava che un poeta improvvisatore cantasse con grande ispirazione e i suoi versi uscissero fluidi dalla sua bocca.

L’espressione che si utilizzava era: sos versos li essin a truvu [šɔr ’vεrsɔ lli ’essin a ’truβu].

L’immagine della fluidità dei versi è congeniale all’idea che le parole, proprio come l’acqua, sgorghino naturalmente e copiose in superficie e segnino presenza nei mari, nei fiumi, nei laghi, nelle fonti.

Ma a volte i corsi d’acqua si ingolano e non tornano in superficie: penetrano nel ventre scuro della terra, restano negli antri bui delle grotte, dànno vita a laghi sotterranei nelle viscere di massicci montani, fino a nuove ondate di piena che fanno fuoruscire i vecchi accumuli.

Parimenti, il reale pensiero dell’uomo non scaturisce in modo palese e non scorre liberamente in superficie nell’articolazione della lingua, nella concretezza della sonorità del nome, del significato della parola: non alla luce del sole.

Pessu e paraula no pican tott’unu filu ca s’idea no est mai manifesta!

Forse, fra le tante motivazioni di questo assunto sta l’indubitabile azione della Chiesa che, a più riprese nella storia sarda, ha cercato di proibire le lamentazioni delle préfiche le quali, spesso, incitavano alla vendetta: “le autorità ecclesiastiche tentavano da tanto tempo di imporre la proibizione delle veglie funebri, o attittidos, che si trasformavano troppe volte in incitamenti a vendette e nuovi delitti (S. Tola in introduzione a Diego MeleSatiras, p. 29)”.

Ma le intenzioni dell’individuo non sempre sono leggibili nella lingua: non si dichiara il progetto dell’agire. Fache e càllia [’faχ ε ’kallia] era raccomandazione ricorrente nella società barbaricina.

Talvolta l’intenzione, a samben caènte, vestiva altri panni e non era raro sentire il parente oltraggiato proferire in modo grave: Samben pedit samben! [’sambεnε ’peᵭi ’ssambεnε] (Il versamento di sangue chiede versamento di sangue) o anche Odiu muttit odiu! [’oᵭju ’muttiᵭ ’oᵭju] Odio richiama odio.

Pareggiare i conti nelle faide familiari non implicava un esplicito ricorso al verbo vendicare/si e tantomeno alla parola vendetta. Nell’uso quotidiano della lingua sarda non trovavano spazio né il verbo né il sostantivo appena citati, fino a tempi relativamente recenti. La censura produsse il parlare in suspu, sa cucuzàntzia e l’antifrasi.

C’era un codice non scritto e non esplicitato, quello messo in luce da Antonio Pigliaru in La vendetta barbaricina.

Come altre funzioni comunicative che oggi richiedono un immediato soddisfacimento del bisogno linguistico, sul calco delle lingue moderne europee, occorre ricercare nei dizionari di limba le parole per ‘dire le cose’ ma, è utile precisare che quelle parole appartenevano all’universo dell’astrazione letteraria, al deposito (Saussure) delle parole da cui possono e devono attingere i poeti.

Nella realtà la lingua è (era) altro!

Nel quotidiano si ricorreva ad espressioni gergali per far intendere e non già per nominare.

La locuzione torrare su chittu (o sos chittos) [tɔr’rarε šu ’kittu] è traducibile con le espressioni ‘tornare a pareggio’, ‘pareggiare i conti’, ‘rendere pan per focaccia’.

Sul piano antropologico significa ‘vendicarsi di un torto’.

Lat torrau su chittu [l a ttɔr’rau šu ’kittu] Ha pareggiato i conti (Lo ha pagato con la stessa moneta).

Sul piano economico assume il significato di ‘tornare pari’, ‘chiudere i conti’. ‘saldare i debiti’. Chin su chi tappo dau semmus chittos [ki ssu χi t appɔ ᵭau ’šemmuš ’kittɔš(ɔ)] Con questo che ti ho dato ho saldato i debiti (siamo pari).

Il concetto di giustizia nell’antropologia della Sardegna passò spesso attraverso la legge dell’occhio per occhio. La base etimologica del termine chittu si trova nell’accadico ḫītu (plur. tantum ḫittu) ‘erreur, manquement, tort, mal, danger / errore, mancamento, torto, male, danno’, ma cfr anche kīttu ‘vérité, justice, loyauté / verità, giustizia, lealtà’ e vd la base etimologica comune del castigliano quitar ‘parare i colpi’ et alia

Dunque, torrare su chittu vale a dire rendere il torto per ristabilire la giustizia.

Anche la locuzione torrare su corfu, sostanzia la ricerca di ristabilire la parità fra due individui, colmare la mancanza causata dal torto subìto.

Diversa invece, l’espressione toddere (catzare) sos corros [’tɔḍḍεrε šɔš ’kɔrrɔš(ɔ)]: sta a significare ‘vendicarsi’ nel senso di rendere il colpo e tornare in pareggio perché l’offesa ricevuta è vissuta come oltraggio, scorno (corru).

Queste espressioni non fanno parte dei dizionari di sardo e, non compaiono nelle pagine dei vocabolari del sardo fin dai primi compendi lessicali pubblicati a stampa (Spano, Porru ed altri), mentre ne sono censite altre.

vendicare [βendi’karε] v. tr. e intr. Vendicar/si. Fra gli autori colti della poesia in varietà logudorese si hanno esempi di utilizzo di questo verbo. La prima attestazione si trova in Pietro Pisurzi (Bantine 1707-1796), nella poesia S’anzone, p. 88, strofa 16:

Daminde parte e ista asseguràda

chi eo depp’esser mortu e tue vengiada.

La presenza del suono medio palatale sonoro [dʒ] nel participio passato usato come aggettivo, rinvia al verbo francese venger. La lingua francese era, allora, considerata lingua della cultura (si era nel secolo dei Lumi) e probabilmente, la formazione culturale del curato di Bantine si arricchì della conoscenza di un autore francese contemporaneo: Jean de La Fontaine. Del resto, dominavano i Savoia, di lingua e cultura francese.

La seconda volta che il verbo ricorre nella poesia logudorese si trova nel poema di Diego Mele Su populu de Ula est fortunadu, p. 95 Str. 16:

de ira e de furore sun azzesos /

e cheren vindicada cust’injuria.

Anche nella poesia del macomerese Melchiorre Murenu Sa creatzione de Adamu e sa naschida, passione e morte de nostru signore Gesù Cristu, a p. 297 nella strofa 78 si legge:

ma gasi vendichendedi, non cheres /

chi deo siga ‘e Babbu sos doveres.

Nelle Cantzones pubblicate su fogli volanti nel corso del decennio 1885-1905 e cantate dai cantastorie, il verbo vendicar/si e la parola vendetta erano indispensabili per attirare l’attenzione morbosa degli ascoltatori e renderli possibili acquirenti di quei fogli di notizie, succedanei dei primi giornali che nacquero proprio in quegli anni. Il cantastorie Giovanni Maria Fiori fa ricorso al verbo ‘vendicar/si’ per un fatto occorso nel 1888:

Si naran chi s’onore an postu a bendere

si nde sunu cherfidas vinditare

(dall’antologia Cantones de Samben delle Edizioni della Torre, pg. 69, strofa 15).

Da queste testimonianze appare evidente che il verbo vendicare in sardo non ha unità originale, come attesta anche il fenomeno dell’apofonia negli esempi in varietà logudorese.

Nel corso del XX secolo, l’istruzione obbligatoria in lingua italiana ha prodotto il prestito vendicar/si:

Pro vendicare su chi an fattu a mie (Baddore Branca, emigrato a Sampierdarena 1910, nella poesia Adios, a p. 136 di Musa durgalesa).

E nella strofa successiva:

Est menzus chi m’iste in terr’anzena / tantu si torro vendico s’offesa (Baddore Branca, idem).

Fino al XIX secolo nel repertorio lessicale dei Sardi esistevano il prestito vengare.si (cast. vengarse) ed il sostantivo vengansa (cast. vengansa), cfr diversi componimenti nell’antologia Musa durgalesa relativi all’Ottocento.

 

± Venditta [βen’ditta] s.f. Il corrispettivo del termine italiano vendetta suonerebbe in sardo venditta o vinditta (per apofonia) ed è un evidente prestito dalla lingua italiana imposta fin dal 1767 come lingua ufficiale per la Sardegna ed il Piemonte.

Nella letteratura in lingua sarda logudorese si ritrova, fin dalla prima metà dell’Ottocento, nella poesia di Melchiorre Murenu di Macomer (nella poesia S’istadu de Sardigna)

tzertas isparientzias arrosas /

de vinditta, de odiu mortale, /

chi no incontrat nessunu suggettu /

unu pramu sanu de logu nettu.

Si trova anche nel poema Avvertentzias ei sos deghe pretzettos a p. 198 str. 23:

contr’a tie vinditta an a giamare.

Ricorre in S’imbidia, s’impostura e-i sa murmuratzione a p. 218 str. 10,

e issu meritesit pro vinditta /

simile mort’e perdid’infinita.

Il termine compare ancora due volte in Sa creatzione de Adamu e sa naschida, passione e morte de nostru signore Gesù Cristu a p. 302 str. 92:

Ite ti paret venditta tirana /

ch’a tantu furore ti giompesit?”;

e nella stessa poesia a p. 308 str. 109:

Isco chi pro vinditta s’accostesit.

Essendo privo di vista, oltreché di mezzi economici, l’Omero del Marghine non aveva avuto scolarizzazione. La sua conoscenza delle sacre scritture gli deriva dalla frequenza della chiesa vicino alla quale risiedeva e dall’ascolto delle prediche dei sacerdoti di quel tempio: oltre al linguaggio quotidiano, tutta la sua lingua poetica attinge a piene mani dalla cultura dei sacerdoti, ex audito, che impiegavano, nelle prediche, figure, personaggi e storie della Bibbia e dei Vangeli. Perfino il latino che Melchiorre Murenu usò per costruire alcune serràdas di ottave (vd la poesia Su giudissiu universale a p. 335 str. 69:

In illa, Rex Tremendae Majestatis /

Qui, salvando nobis, salva gratis;

a p. 336 str. 70:

Ergo qui Mariae exaudisti /

et in cruce latronem absolvisti, ed altre)

proveniva dall’uso dei preti nella liturgia.

La non comune capacità mnemonica del poeta cieco faceva il resto: Murenu dimostra nelle sue poesie una conoscenza di sapere ‘scolastico’ e ‘libresco’ che deriva dall’ascolto, dalla memorizzazione e dal reimpiego di termini e costrutti nient’affatto diffusi fra la popolazione a lui contemporanea.

 

La parola vinditta entra anche nel componimento (ai versi 29 e 30) strutturato come Modellu di 55 versi di contenuto chiamato Chimbantachimbe o Leonorodia, antologizzato dal canonico Giovanni Spano:

Ingratos, bazi e sutta a fritta losa

proade ismentigados sa vinditta.

Giovanni Cubeddu Cossu di Ozieri nella Canzone sarda in Ottava serrada Pro sa morte tragica de s’avvocadu Attilio Cadolini (1888) fa uso del termine proprio nel distico di serràda:

Dimandende giustissia e vinditta

ch’as a ruer d’orrore in terra fritta

(dall’antologia Cantones de Samben delle Edizioni della Torre, pg. 52, strofa 27).

Per lo stesso assassinio dell’avvocato Attilio Cadolini (1888) anche un poeta anonimo ricorre al termine vinditta fin dal secondo verso di una serie di ottavas:

Oh giurados, chi hazis mente sana

postos pro castigare ogni vinditta

(dall’antologia Cantones de Samben delle Edizioni della Torre, pg. 60, strofa 1).

Giovanni Maria Fiori nella citata Canzone sarda per l’assassinio dell’avv. Cadolini e per il ferimento di una persona occorso in Ittiri nel mese di febbraio del 1888 scrive:

Pro disgrazia sua e malasorte

pro vinditta ciamadu l’hat sa morte.

(dall’antologia Cantones de Samben delle Edizioni della Torre, pg. 68, strofa 13).

La parola vinditta si riscontra anche in varietà gallurese di Francesco Maria Mariotti nella Canzone Tempiese per la sventurata morte di Bernardo Sansan (16 febbraio 1893):

La vinditta la tarra de’ cramà

la molti d’un onestu cittadinu,

(dall’antologia Cantones de Samben delle Edizioni della Torre, pg. 107, strofa 1).

  1. R. sono le iniziali dell’autore di un Canto mesto per la morte di Santuccio Pietro di Ossi e di Chessa Pietro da Osilo avvenuta il 19 marzo 1894.

Cun d’un’arma de fogu pro vindita

o attera idea malaita

e nella strofa 13^ :

Osservan chi un atroce de asie

crudelissimu barbaru e dolente

devet esser vinditta e l’han firmadu

iscrittu i su giornale e pubblicadu.

(dall’antologia Cantones de Samben delle Edizioni della Torre, pg. 121/125, strofa 1/13).

Antonio Giordano di Napoli compone un Cantigu luttuosu per lo stesso orribile delittu e così si esprime:

Commissu unu reatu pro dispettu

cun odiu e venditta han pubblicadu,

(dall’antologia Cantones de Samben delle Edizioni della Torre, pg. 130, strofa 3).

Un altro cantastorie anonimo compone una Canzone sarda subra s’assassinamentu de Michele Bitti di Nule, il 27 settembre 1900 in Isalle, e ipotizza:

pibioso praiana iscramende

giustiscia etterna e vindita giamende

e, più oltre, considera che il figlio del Bitti, maresciallo dell’esercito:

pregontende de s’orrenda disaura

ressinadu de fagher sa vendita

cale manu terrena malaita

mediti che:

ca più de s’onores e medaglia

sa vendita pro s’opera mi giama

perché, nelle considerazioni finali del poeta

zertu chena vendita non estadese

(dall’antologia Cantones de Samben delle Edizioni della Torre, pg. 139/143/144, strofe 7/19/22/24).

Lo stesso sostantivo venditta o vinditta compare tre volte nelle poesie di Pippinu Mereu e lo si ritrova anche in A. Casula Montanaru:

a babbu meu, jaju ‘ostru santu /

mortu l’aìan pro una venditta /

eo piseddu fia ancora in titta /

e no apo connottu cuss’ispantu.

Verso il 1970 Predu Cosseddu, poeta improvvisatore di Orune, cantava la moda a Nostra Signora del Carmelo:

a coro apertu e pienu ‘e zelu /

a tie faco una precadorìa /

in Orune dissìpes donzi velu /

de odiu vendetta e tirannia

Le due parole segnalate come esempio di apofonia, sono entrate in alcuni dizionari di sardo ma nel linguaggio corrente non ebbero circolazione fino a tempi assai recenti.

Nella lingua francese del XIX secolo comparve il prestito italiano vendetta, tratto dalla lingua corsa, nel romanzo Colomba di Prosper Mérimée: ma nel francese odierno prosegue il sostantivo vengeance, assai poco usato.

In francese il termine dovrebbe aver fatto la prima comparsa letteraria ‘venjance’ nella Chanson de Roland (circa 1100), secondo il CNRTL francese.

Per la lingua italiana si fa riferimento a Dante Alighieri (Inferno XXIV v. 119-120):

Oh potenza di Dio, quant’è severa,

che cotai colpi per vendetta croscia!

Che Paolo Monni così ha tradotto:

ahi podere de Deus cant’est seberu

chi goi pro venza s’est isborrocadu!

Nel sardo meridionale si fa uso di vengia (>fengia) per indicare, fra l’altro, il concetto di vendetta.

Giovanni Spano nel suo Vocabolario rileva le voci:

vengàla s.f. Vendetta

vengànza s.f. Vendetta.

vengàre v. Vendicare.

Ma ancor prima propone fèngia s.f. come voce Meridionale per “Invidia” e -osu agg. “Invidioso”.

Ernesto Nieddu, Cuàste? vocabolario villagrandese, propone fenga [’fεŋga] s.f. Vendetta. <cast. vengar ‘id.’

fengàe [fεŋ’gaε] v. intr. pron. Farsi giustizia, Infierire per vendetta, vendicarsi. <cast. vengar ‘id.’

Con i derivati -au [fεŋ’gau] Part.pass. e -osu [feŋ’gozu] agg. Vendicativo.

Ma anche

fengia [’fεndʒa] s.f. Invidia, àstio. -osu [fen’dʒozu] agg. Invidioso,

Per queste ultime due voci non è avanzata ipotesi etimologica.

Massimo Pittau propone

fèngia anche con afèresi con il significato di “vendetta”, “rabbia”, “invidia”.

Per vengare “vendicare” (anche rifl.) propone una derivazione dal cast. vengar ma porta anche vengiar che deriva dal catal. venjar (DES, II, 569).

Per il verbo vengar il Diccionario Crítico Etimológico Castellano e Hispánico di Joan Corominas (vol. V)

propone l’etimo dal lat. vĭndĭcare e, fra i derivati del verbo anche il sost. vindicta [1499] da lat. vĭndĭctavenganza” o “vengança”.

Nel Ditzionàriu sardu gavoesu di G. Mereu e G.F. Sedda si trova vènga /’benga/ [log.] sf., vendetta, spirito di vendetta SIN. vendetta, VAR., benga > -atìvu [sp. vengativo] e -ósu agg. [da venga].

L’idea di vendetta come si intende oggi, non apparteneva alla lingua sarda e ce lo dimostra la ricerca etimologica di Salvatore Dedola:

«‘vendetta’ < lat. vindicta. Il lat. vindex è ‘colui che ristabilisce l’ordine, la giustizia’, ‘quindi è il ‘garante di fronte alla legge’; lat. vindicō ‘rivendico in giudizio, reclamo, punisco, vendico’; lat. vindicta era la ‘bacchetta con cui l’assertor liberatis toccava lo schiavo che veniva affrancato’ (Plauto, Cur., 212 etc.). Il significato originario di vindex è ‘colui che ubbidisce all’ingiunzione di corrispondere al disposto della giustizia’. Base etimologica è il sum. u’en ‘to release, liberare, emettere’ + dikud ‘judge, giudice, giudizio’ (u’endikud ‘emettere sentenza’).

Si vede che questi termini erano in voga in Sardegna ben prima dei Romani».

 

Bibliografia:

-S. Dedola, Faeddarzu.

-A. Deplano, Rimas.

-A. Deplano, DED.

-G. Spano, Ortografia sarda nazionale.

 

©Andrea Deplano 2025

 

foto di Paola Capra

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